Massimo Zamboni, i Soviet e l’elettricità a cent’anni dalla rivoluzione d’ottobre | INTERVISTA Uno spettacolo che non possiamo definire tale, un ipertesto scenico fatto di immagini, musica, canzoni, celebrazioni, discorsi, comizi fra utopia guerre, dittature e sogni infranti. In chiave punk rock melodico emiliana

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BOLOGNA – Lunedì 13 novembre andrà in scena al Teatro Il Celebrazioni “I Soviet + L’Elettricità. Cento anni di rivoluzione russa. Un secolo di CCCP”. Uno spettacolo ideato e diretto da Massimo Zamboni. Sulla locandina: testi giallo elettrico di stampo decisamente sovietico, sfondo pop e un inquietante busto di Lenin in cera rigorosamente rossa. In puro stile CCCP. 

In occasione dei cent’anni della rivoluzione d’ottobre del 1917, “I Soviet + L’Elettricità” coglie il pretesto per rievocare miti e fallimenti di un evento storico che ha lasciato un solco profondo nel ‘900. “Un comizio”, recita il sottotitolo, dove la parola incarna speranze e delusioni, “un’azione teatrale-musicale per una drammaturgia complessa articolata”, non un semplice spettacolo tout court e meno che meno una celebrazione. Così almeno pare. Ma per fugare ogni dubbio al riguardo, decidiamo di rivolgerci direttamente a Massimo Zamboni, che incontriamo a ridosso dello spettacolo.

Partirei dal titolo e dal sottotitolo che avete scelto. Perché “I Soviet + l’Elettricità”? E come mai lo definite un comizio? Il comizio si basa sulle parole e invece voi siete dei musicisti.

Quando pensi a un avvenimento con una portata così enorme come la rivoluzione sovietica e tutti i suoi riverberi nel secolo seguente, l’idea di fare un concerto mi sembra davvero riduttiva e credo ci sia bisogno di mettere in atto molte più rappresentazioni e allora ho pensato di trasformare il palco in un comizio. Mi sembra la parola sia sufficientemente desueta però è così ancorata dentro alla nostra consapevolezza da meritare di essere rispolverata.

E quindi cosa ci dobbiamo aspettare?

Il palco è trasformato in una tribuna da comitato centrale, ci sono quattro tribune, un podio molto alto. Noi agiremo più come attori che come musicisti, con una divisa militare abbastanza rigida che ci costringerà a uscire dal ruolo consueto e cioè quello di avere degli strumenti in mano e di “sballicchiare” mentre suoni. Ma credo che questa rigidità di movimento che il palco ci impone sia assolutamente salutare: carica noi di una responsabilità verso quello che facciamo molto più forte, e ci impone di considerare le parole mentre le pronunci, e le musiche mentre le fai, non riesci più a contentarti del solo dato musicale, ma devi capire qual è la relazione e il senso generale che stai mandando fuori. E questo mi piace molto perché non è pensabile di costruire uno spettacolo e usare una parola così brutta come “spettacolo” per un progetto del genere… Spettacolo rimanda ad atmosfere molto più allegre, in realtà noi stiamo parlando di una rivoluzione – quindi di un atto violento – al quale sono seguiti milioni di morti. Bisogno riconoscerlo. Lo spettacolo inizia quindi con una marcia funebre nel buio, che dura più di quanto sarebbe lecito farla durare.

La marcia funebre a chi è “dedicata”?

La marcia funebre è quella che è stata utilizzata nella rivoluzione di ottobre per ricordare gli uccisi della prima rivoluzione di febbraio. Quindi è un inno molto sentito dal popolo russo, molto più dell’Internazionale. Voglio che il pubblico l’ascolti in silenzio e con attenzione, perché voglio ricordare al pubblico in sala che non è un gioco. Quello che stiamo vedendo non è uno spettacolo fatto di belle immagini, belle figurine e belle canzoni. Sono certamente belle canzoni, immagini studiate molto bene e parole molto alte. Però non dobbiamo mai dimenticare chi è rimasto schiacciato dal peso di queste parole e di queste immagini.

Il titolo invece?

“I Soviet e l’elettricità” è una frase di Lenin. L’elettrificazione del paese avrebbe condotto inevitabilmente al socialismo, sappiamo che non è bastato in nessun modo. Non è bastata l’elettricità ed è anche il verso di una nostra canzone.

“Manifesto”?

Sì. E ho pensato che se dovevamo mettere in piedi questo immaginario novecentesco, rispolverare quella frase, quasi che fossimo noi l’elettricità che è capace di dare un senso ai Soviet, fosse il titolo più adatto.

Voi avete sempre giocato molto bene col tempo e con lo spazio, avete vissuto quasi per paradossi, si può dire (non prenderla a male…)

No, no è vero, io lo capisco perfettamente!

Siete andati vistosamente controcorrente, penso agli anni ’80, gli anni di Reagan, gli anni degli Yuppies. E quando nell’89 con la caduta del muro di Berlino il comunismo si è sgretolato, voi seguivate il flusso contrario e vi siete spinti ancor di più verso est. Questo è qualcosa che fate sempre: rincorrere il futuro nel passato, e il passato nel futuro. Esiste una dialettica particolare in questo e anche un movimento. Cosa ne pensi?

Io credo che ci sia una grande contemporaneità tra “passato-presente-futuro”, non riesco a considerarli effetti distinti del tempo, a me sembra di conservare tutte le età che mi hanno preceduto e che ho conosciuto. So perfettamente che in me c’è il germe di quello che sarà in futuro – come in ogni essere naturale – e quindi mi sembra facile sentirmi contemporaneo a quegli avvenimenti e allo stesso tempo proiettarli nei giorni nostri perché altrimenti non sarebbe di nessun interesse una cosa di questo tipo, se non si riflettesse su che cosa siamo noi oggi e se non si fosse capaci di dare indicazioni per il futuro, che magari ognuno interpreterà come vuole. È ovvio che sulle rivoluzioni ci sono migliaia di interpretazioni diverse e opposte. Però io penso che le parole d’ordine di allora potrebbero aver senso anche per noi opportunamente tarate, con il linguaggio di oggi. Leggendo Orwell, mi chiedo chi ci governa oggi quanto sia capace di manipolare il passato, di eliminare le parole che sono scomode, ed eliminarle dal vocabolario. E quando saranno scomparse dal vocabolario, non esisteranno più (e noi siamo “parola”), quando non esisteranno più chi penserà ai sogni e all’utopia o al prendere in mano la propria vita? Sono meccanismi che sono molto minacciosi e che io avverto all’opera, attorno noi. Forse, il richiamo più forte dello spettacolo è proprio questo: “togliamo il paraocchi e guardiamoci attorno con freschezza e con disincanto”, perché le forze che stanno operando per toglierci il mondo da sotto i piedi sono al lavoro e intanto ci riempiono di piccoli regali, ma alla fine scopriremo la verità. Una volta che apriremo gli occhi capiremo che avremmo dovuto aprirli molto prima…

“Socialismo e Barbarie” o “Socialismo o Barbarie”? Che cosa funziona meglio adesso, secondo te?

Mah… noi abbiamo giocato con questi termini e una volta, cent’anni fa, l’alternativa era fra scegliere il socialismo che è la possibile emancipazione o rimanere nella barbarie del regime feudale dove un pugno di ricchi, sostanzialmente, umiliava e sfruttava fino alla morte tutto il resto della popolazione. E il secolo ha provveduto a dimostrare quanta barbarie c’è stata nel socialismo e quanta nuova oppressione, quanta burocrazia e quanta possibilità di movimento, di pensiero e tutto quanto. E quindi io credo che dovremmo far coesistere tutti questi termini fra di loro e tirarne fuori un bilancio sempre dinamico mai fermo lì al primo pensiero che ci capita.

Per quanto riguarda invece il momento attuale sembra si stia rivivendo una storia pregressa: una stretta oligarchia che governa con altri mezzi e ha potere su grandi numeri.

La cosa che in questo momento mi colpisce di più è quanta identificazione c’è fra noi e questa oligarchia. Abbiamo l’emanazione del potere che assume forme umane, il potere è una macchina, una società multinazionale di cui non sappiamo nulla, che può cambiare i suoi uomini e quindi rimane sempre viva e attiva, osserviamo questi uomini e vorremmo essere come loro, vorremmo condividere le loro aspirazioni, la loro ricchezza, tutto quello che loro ci fanno ritenere importante. Questi specchi per allodole mi colpiscono veramente tanto quanto la nostra ingenuità di abboccare a questi tranelli.

Vorrei però mettere l’accento, al di là di queste parole abbastanza pesanti, sul fatto che “I Soviet e l’Elettricità” è uno spettacolo – in fin dei conti – quindi ci sarà molta musica, ci saranno molte immagini e ci sarà modo di tirare dei respiri di sollievo e poi di sprofondare nuovamente: ce n’è un po’ per tutti.

***

Franata la velleità socialista che la rivoluzione potesse essere una locomotiva proiettata a folle velocità nel binario del progresso, l’uomo si è riscoperto come creatura complessa, fatta di spirito, bisogni, natura, modellato da secoli di storia e da retaggi millenari.

INFO
www.teatrocelebrazioni.it.
TEATRO IL CELEBRAZIONI
Via Saragozza, 234, Bologna
Biglietteria dal lunedì al sabato (ore 15.00 – 19.00)

PROSSIME DATE
Udine, Teatro Nuovo Giovanni da Udine, 15/11/2017 h. 21.00
Torino, Teatro Colosseo, 20/11/2017 h. 21.00
Reggio Emilia, Palazzo dello Sport Bigi, 7/12/2017 h. 21.00
Biglietti presso Ticketone

BIO
Massimo Zamboni, emiliano, da sempre affascinato dall’immaginario e dal mito sovietico, nel 1982 fondò assieme a Giovanni Lindo Ferretti i CCCPFedeli alla Linea, un gruppo punk entrato a far parte della storia della musica e non solo di quella italiana. Il nome è l’italianizzazione del cirillico S.S.S.R (U.R.S.S) e la band, che si era definita “filosovietica” – parente stretta di Mishima e Majakovskij e del dadaismo russo – scriveva “musica melodica emiliana”. Per niente attratti dal richiamo americano è ad Est che la band puntava lo sguardo, sia per ragioni etiche che estetiche. Reduci da un trionfale tour a Mosca e a Leningrado nella primavera del 1989, i CCCP posero fine al loro sodalizio nel 1991, proprio negli anni in cui l’ex Unione Sovietica cambiava il suo assetto politico e sociale. Dopo alcuni anni il gruppo ritorna sulla scena con l’acronimo CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti). Il nome non a caso riecheggia la nuova Confederazione degli Stati Indipendenti, come dire il primo amore non si scorda mai. La band ottiene nuovamente un successo notevole fino a sciogliersi. Massimo Zamboni continuerà la carriera di solista dedicandosi anche alla composizione. Pubblica nuovi album fra i quali “Sorella sconfitta”, 2004; L‘inerme è l‘imbattibile”, 2008; L‘estinzione di un colloquio amoroso”, 2010; “Una infinita compressione procede lo scoppio”, 2013. Zamboni ha inoltre composto musiche per il cinema tra le quali “Benzina”, 2001; “Velocità massima”, 2002; “L‘orizzonte degli eventi”, 2005; “Terapia d’urto”, 2006, “Il mio paese”, 2006; “God Save The Green”, 2012, “Il nemico. Un breviario partigiano”, 2015 e per il teatro (“La detestata soglia”, 2010; “Biglietti da camere separate”, 2011). Artista eclettico e soprattutto intellettuale, Massimo Zamboni è anche l’autore di sette libri (tra i quali “In Mongolia retromarcia”, Giunti, 2000; “Emilia parabolica”, Fandango, 2002; “Il mio primo dopoguerra”, Mondadori, 2005; L’eco di uno sparo”, Einaudi, 2015; “Anime galleggianti”, uscito presso “La Nave di Teseo”, 2016 e il recente “Nessuna voce dentro” pubblicato da Einaudi.

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